Questa è la testimonianza di Fiorenza, guarita da un linfoma. Fiorenza quando si è ammalata era una studentessa universitaria proveniente dalla provincia di Salerno che che è stata curata a Siena, quindi lontano da casa con tutti i disagi che questo può comportare, ma in ogni momento della sua malattia, anche in quelli più difficili Fiorenza non ha mai perso il suo sorriso e la sua solarità. Oggi Fiorenza sta bene, si è laureata e lavora. Il suo impegno a favore dell’AIL lo possiamo vedere nella foto, le sue parole ci testimoniano la forza che ha mostrato durante tutto il suo percorso per sconfiggere “il mostro”.

La decisione di Vivere

Nel 2003 a gennaio, mentre preparavo un esame all’università, mi accorsi che alla base del collo c’era un linfonodo ingrossato. Nel giro di una settimana il linfonodo era diventato così grosso da vedersi evidentemente allo specchio. Mi feci la diagnosi da sola. Nei cinque anni precedenti insieme alla mia meravigliosa famiglia avevamo combattuto contro il melanoma in IV stadio diagnosticato a mio padre che nel giugno del 2002 lo ha portato alla morte. Quindi, avevamo studiato in linea generale tutti i tipi di tumori. Tanto è vero che appena mi toccai il linfonodo pensai subito a quello che poi si rivelò: linfoma di non Hodgkin II° stadio.
Nel giro di dieci giorni mi ritrovai in ospedale a Siena per fare la biopsia osteo midollare e dopo ci fu la manifestazione prepotente di tutti i sintomi: la stanchezza, la tosse, le sudate notturne, il prurito da strapparsi la pelle.
Nel reparto di Ematologia di Siena mi parlarono di percentuali di guarigione, di un breve periodo di pausa per curarmi; furono ottimisti e, dopo il primo periodo di sconforto per essere ripiombata con la mia famiglia di nuovo nel tunnel della malattia, lo fui anch’io: forte delle loro dichiarazioni, mi sentii più sollevata e decisi che avrei combattuto.
Ebbi però un unico pensiero fin dall’inizio: la mia famiglia, quelle stesse persone che erano così stanche dalla dura lotta che avevano affrontato per cinque lunghissimi anni, di studi medici, cure, ospedale, febbri e tutto quello che comporta una malattia come il tumore. Visto che erano passati solo sei mesi dalla morte di mio padre il tutto mi sembrava la normalità, dato che l’essere umano ha una capacità enorme di adattarsi a qualunque situazione anche a quelle più tremende, io la definisco la forza della vita.
I medici parlavano di sei mesi di chemioterapia e qualche seduta di radioterapia e poi tutto si sarebbe risolto.
Dopo tre mesi la prima tac, risultato positivo: riduzione della massa al mediastino, dopo la prima seduta il mio corpo reagì benissimo, si alleviarono tutti i sintomi. Per i successivi tre cicli invece non ebbi risultati, feci 25 sedute di radioterapia e aspettai un po’ di mesi per fare la tac e pet.
Così siamo arrivati a giugno del 2004: indimenticabile il momento in cui la dott.ssa Lenoci nel suo studio mi disse che il mostro era ancora lì al mediastino, dal risultato della pet risultavano ancora cellule tumorali attive. Lo sconforto più totale. Il mostro, che con tanto ottimismo avevo deciso di sconfiggere, stava ancora dentro di me…..E ora?
La dott.ssa Lenoci, con il dott. Marotta mi parlarono di autotrapianto e di tutta la prassi per essere sottoposta a tale trattamento. Non provavo più nulla, solo rabbia, una rabbia che mi avrebbe fatto impazzire se non mi fossi ricordata uno dei principi cardini della mia fede nel buddismo di Nichiren Dashionin che dice di utilizzare in questo caso la rabbia nel modo migliore: quindi contro il linfoma, quindi impegnare tutta la mia rabbia per neutralizzare il mostro, quel mostro che mi stava portando via la vita.
Il percorso iniziò con l’inserimento del cvc, un grosso ago che mi doveva permettere di fare la terapia e poi l’autotrapianto più facilmente, un “buon amico”, dunque che invece, è stato il mio “peggior nemico” tale da scatenarmi una trombosi. Iniziarono a cambiare le priorità: l’eparina, la necessità di ogni ora di trovare una vena per fare i prelievi, l’inserimento di un nuovo cvc, di nuovo la chemioterapia e poi dopo due mesi sembrava che potessi tornare a casa. La paura diventava sempre più forte, ricordo che mi sentivo al sicuro solo nel reparto di Ematologia dove tutto era adatto a me: l’ambiente e tutte le persone, gli insostituibili infermieri e le infermiere che porto tutti nel cuore come le persone che mi hanno aiutato di più, e tutte le persone che lavorano in Ematologia a Siena.
Esco dalla trombosi, dopo due giorni mi ritrovo al reparto malattie infettive con l’herpes Zoster, tipica malattia di chi ha le difese immunitarie basse. Ricordo le febbri come le più brutte di tutto il percorso, il dolore alle ossa e lo stato quasi comatoso dovuto all’emoglobina bassa e qui l’unica speranza che mi teneva appesa a un filo erano le parole del mio maestro di vita buddista Daisaku Ikeda che dice: “che in ogni persona c’è sia la capacità di ammalarsi che la capacità di guarire”.
Dopo sette giorni durissimi esco anche da questa batosta e torno a casa per 10 giorni, bellissimi perché trovo un sacco di persone a sostenermi e a dimostrami la loro solidarietà.
Prima dell’autotrapianto a settembre del 2004 feci la pet di controllo: finalmente il risultato tanto atteso: Negativa.
L’autotrapianto andava fatto per riconfermare il risultato. Entrai nella camera sterile agli inizi di ottobre, pronta per affrontare l’ennesima battaglia contro il mostro con tutti i rischi annessi a tale trattamento. E’ stato proprio durante il mio soggiorno nella camera sterile che iniziai ad apprezzare di più la mia vita, promettendo a me stessa di vivere rispettando il mio essere, accettando me stessa, assaporando ogni istante della mia vita senza risparmiarmi e godendo di quelle piccole cose che avevo dato per scontate fino a quel momento. Sono uscita dopo ventidue giorni di cui ricordo ogni attimo, che malgrado la situazione porto nei miei ricordi preziosamente per tutte le persone che ho incontrato e che hanno arricchito la mia esistenza. Ognuno di loro è come se avesse aggiunto un pezzo di me nell’universo. La malattia ha rafforzato il mio rapporto con la mia famiglia, ma, soprattutto con me stessa. E’ un pezzo importante della mia storia è stato un punto di partenza verso una vita lunga, più consapevole e piena di sorrisi poiché ogni mattina quando mi sveglio sono felice di averlo fatto, e sono felice di poter vivere un altro giorno perché niente è scontato e niente è dovuto.
Spero che la mia esperienza vi aiuti a sperare e a credere nella vita e combattere per vivere.
“ Un giorno di vita in più vale molto di più di mille tesori”.

Fiorenza